Ancora sulle elezioni…


Ieri siamo stati chiamati a dire la nostra in un incontro pubblico sugli esiti della recente tornata elettorale e lo stato dell’arte a sinistra. Ringraziando ancora i compagni e le compagne della Rete dei Comunisti per averci invitato pubblichiamo il nostro intervento con cui proviamo ad aggiungere alcune brevi considerazioni a quelle che già avevamo espresso subito dopo il voto.

L’astensionismo inteso come scelta tattica dei comunisti qui ed ora e non come scelta strategica
Anche quest’anno come ci era già capitato nelle scorse tornate elettorali abbiamo deciso di astenerci e, nel nostro piccolo, di dare anche un’indicazione pubblica in tal senso unitamente ad altri collettivi di altre città con cui collaboriamo in maniera stabile. Lo abbiamo fatto sulla base di un ragionamento che metteva al centro la questione delle trasformazioni della forma stato nella cornice della costruzione del polo imperialistico europeo e l’analisi delle mutazioni del quadro politico italiano. Il nostro dunque non è un astensionismo strategico, da praticare sempre e comunque. Pensiamo invece che la partecipazione o meno alle elezioni e le forme con cui questa avviene siano, per i comunisti, questioni di ordine tattico legate al “qui ed ora”. Tanto per intenderci, se il prossimo 14 aprile ci trovassimo in Venezuela andremmo a votare, ed anche di corsa. Detto questo è evidente che ogni tornata elettorale rappresenta comunque una sorta di barometro che pur con tutte le approssimazioni del caso è in grado comunque di registrare gli “umori” del paese e dirci più o meno “che tempo farà”. Sarebbe quindi piuttosto superficiale non tenerne conto
Come collettivo prima delle elezioni ci eravamo dati alcune chiavi di lettura con cui provare ad interpretare il voto e sono proprio queste che vorremmo provare a condividere.
1)    La sconfitta del “partito europeo
Ci sembra di poter dire, senza timore di smentite, che tanto “Scelta Civica” quanto il “PD” rappresentassero nel bouquet dell’offerta elettorale le forze più coerentemente europeiste. Nel primo caso la constatazione risulta perfino banale mentre per il PD ci limitiamo a prendere in prestito alcune parole di Massimo D’Alema quando nel suo ultimo libro, uscito in piena campagna elettorale, afferma che rafforzare i poteri dell’Europa appare come l’unica via per guadagnare sovranità e non per cederla concludendo poco più avanti che il progetto nazionale e quello europeo tendono a coincidere, a sovrapporsi e integrarsi. Queste due formazioni sono quindi quelle che a nostro avviso incarnano oggi le due anime più funzionali alla costruzione del polo imperialistico europeo, quella moderata e quella “progressista” (e qui ognuno potrebbe mettere tutte le virgolette che vuole). Ci sembrava dunque tutt’altro che irrilevante quantificare il consenso capace di coagulare intorno a se questo “partito europeo” e i risultati sono stati senza ombra di dubbio significativi. Al netto delle alchimie legate al sistema elettorale e al premio di maggioranza, in termini di voti assoluti il PD lascia sul campo rispetto al 2008 ben 3450783 voti; mentre la coalizione che supportava Mario Monti non va oltre i 3591607 voti. Se volessimo riferirci alla totalità degli aventi diritto al voto e non limitarci a quella dei votanti potremmo dire che oggi questo partito europeo rappresenta solo il 28,35% degli elettori. Il dato risulta ancora più significativo se si pensa che ad appoggiare Monti erano scesi in campo Bruxelles, attraverso l’investitura pubblica ricevuta direttamente dal PPE in dicembre, i grandi gruppi industriali e i loro giornali fino ad arrivare, per bocca di Bagnasco, alle alte gerarchie vaticane.
2)    La marginalizzazione del blocco sociale berlusconiano
L’investitura di Monti e lo sgarbo nei confronti di Berlusconi avevano acceso una faida all’interno del campo moderato, al primo infatti era stato affidato il compito di federare i moderati togliendo l’ipoteca di Arcore sul centrodestra e il non esserci riuscito è oggi la principale colpa che gli viene imputata proprio da chi lo aveva sostenuto. E’ significativo al riguardo lo scambio epistolare a mezzo stampa avvenuto fra sabato e domenica sulle pagine del Corriere tra Ernesto Galli della Loggia e lo stesso Monti. Berlusconi, dal canto suo, ha indubbiamente dimostrato di rappresentare ancora oggi un ostacolo inaggirabile. Detto questo, però, a noi sembra di poter dire che le elezioni hanno registrato lo sfaldamento e la marginalizzazione di quel blocco sociale che si riconosceva nella asse PDL-Lega e che ha caratterizzato ed egemonizzato l’intero ciclo della seconda repubblica. Ci riferiamo a quei settori di media e piccola, spesso piccolissima borghesia, che stanno uscendo sconfitti e con le ossa rotte dal processo di integrazione europea. Quelli per cui il vero patto fiscale, come scrisse Aldo Cazzulo sempre sulle pagine del Corriere, consisteva nel tacito accordo per cui le tasse non si abbassano, ma si possono anche non pagare. Dal 2008 ad oggi, sempre stando al dato assoluto, l’alleanza fra PDL e Lega  subisce un’emorragia di 7625191 voti. Una dimostrazione plastica di questa marginalizzazione ce l’ha fornita poi la manifestazione del PDL di sabato scorso a piazza del Popolo; non tanto per il ridimensionamento della piazza (nel 2010 era stata scelta la ben più capiente piazza San Giovanni). E nemmeno per il numero dei partecipanti: i 300mila dichiarati sabato (anche se la piazza senza il palco può contenerne al massimo 100mila) contro il milione di persone dichiarato nel 2010. Quanto, piuttosto, per la scarsa copertura che ci è sembrato sia stata riservata all’evento dai media mainstream, con la notizia relegata nelle pagine interne o fra i servizi minori.
3)    La scomparsa della destra radicale
Un altro dei motivi di interesse di questa tornata elettorale, anche per degli osservatori non votanti come noi, era quello di comprendere se nel nostro Paese esistesse o meno uno spazio politico per un partito reazionario di massa; sulla esempio, tanto per intenderci, di ciò che rappresenta oggi Alba Dorata in Grecia. E soprattutto ci domandavamo se una fra le diverse anime della destra neofascista sarebbe stata in grado di occupare questo spazio. Potenzialmente gli ingredienti c’erano (e ci sono) tutti: una crisi economica e politica che non smette di approfondirsi, la sinistra di classe ridotta ai minimi termini, quella radical-istituzionale praticamente estinta e il malcontento popolare che invece di produrre lotte si trasforma in rancore “antipolitico”. La nostra sensazione era quella, però, che per tutta una serie di ragioni questa transustazione non avrebbe avuto luogo prevedendo che le diverse anime del neofascismo sarebbero state relegate ancora una volta a percentuali omeopatiche. Il dato elettorale ha confermato (per fortuna) queste “sensazioni” dal momento che complessivamente il neofascismo elettorale (La Destra + Casapound + Forza Nuova + Fiamma) raccoglie 402016 voti. Una cifra che potrebbe anche apparire ragguardevole ma che rapportata gli oltre 47 milioni di aventi diritto al voto equivale ad un misero 0,85%. La fotografia diventa ancora più impietosa, poi, se si fa il confronto con le politiche del 2008. Cinque anni fa la Destra e Fiamma Tricolore si presentarono sotto un unico simbolo e contando pure la lista di Forza Nuova raccolsero oltre 994000 consensi. In questi anni a ben vedere, dunque, l’area della destra radicale si è più che dimezzata e questo nonostante l’implosione di AN e gli scandali che hanno squassato il centrodestra mettendo in libertà milioni di voti. Un vero e proprio fallimento che fa da contrappunto al disastro elettorale dell’altra “estrema”, ossia Rivoluzione Civile. Nel Lazio, dove Casapound aveva investito decine di migliaia di euro per una campagna elettorale particolarmente aggressiva, la lista di Di Stefano e soci ha raccolto la miseria di 26 mila voti sottraendoli però alle altre organizzazioni neofasciste tant’è che anche qui il dato complessivo (98295) è ben al disotto di quello che venne registrato nel 2008 (138955).
4)    Il partito dell’astensione
Arriviamo così al dato dell’astensione. In Italia la crisi economica si è configurata, almeno in parte, anche come crisi politica. Durata appena l’arco di un ventennio la seconda repubblica sta cadendo a pezzi, sgretolata, come dicevo, dai processi di integrazione europea e di cessione di sovranità che stanno modificando la natura e le funzioni dello Stato. Lo scollamento fra “cittadini” e “istituzioni borghesi” che ne deriva è incontrovertibile. Siamo perfettamente consapevoli che non si tratta di un rigetto politico e sarebbe ingenuo anche solo pensarlo. Comunque sia a nostro avviso si è aperta faglia in cui qualsiasi forza antisistema dovrebbe provare a collocarsi, con l’intento di allargarla e non certo di ricomporla. E anche qui sta la ragione della nostra scelta. A febbraio gli elettori che hanno deciso di non recarsi alle urne sono stati 1163361, oltre 2 milioni e mezzo in più rispetto al 2008. A ben vedere il “partito dell’astensione” è ad oggi il più grande “partito” italiano e sarebbe davvero interessante, anche se qui nessun dato ci viene in soccorso, capire quanti dei suoi “iscritti” appartengono alla nostra classe.
5)    Il fenomeno Grillo
Arriviamo dunque al vero vincitore di queste elezioni, ossia a Grillo e al suo movimento cinque stelle. In questi giorni siamo stati subissati di analisi sulla effettiva natura del movimento prodotte da gruppi, collettivi o partiti di sinistra. Alcune di queste le condividiamo altre, onestamente, ci lasciano perplessi. Evitiamo però di entrare nel merito e non tanto perché non riteniamo interessante interrogarsi su cosa sia il grillismo, ma perché pensiamo sia adesso più importante ed urgente comprendere come esso venga percepito da una parte della popolazione e soprattutto da molti proletari. La domanda che ci poniamo è questa: è possibile che in assenza di organizzazione politica autonoma il malcontento sociale veda in Grillo la solo ipotesi praticabile per il cambiamento  addirittura lo sconvolgimento del sistema? La risposta, secondo noi, è si. Siamo perciò convinti che l’affermazione elettorale di Grillo parli a noi e di noi molto di più di quanto potremmo credere. Nel successo del Movimento cinque stelle deve essere dunque soprattutto colta questa tendenza, ossia il bisogno di rivoluzionare il panorama politico e sociale del paese e il fatto che, in assenza di una qualsiasi proposta politica e credibile di cambiamento, il bisogno di una grande parte della popolazione si sia riversato sul M5s.  Che poi questo non avvenga, proprio perché quei meccanismi Grillo non solo non li vuole scardinare, ma li vuole oliare per farli funzionare meglio, è qui poco rilevante. La cosa rilevante a nostro avviso è che queste elezioni hanno dimostrato che c’è una voglia repressa di trasformazione radicale del panorama politico, e che in assenza di una organizzazione di classe questa si esprime in forma alienata votando chi, mediaticamente, porta avanti il discorso più convincente rispetto alla possibilità di cambiamento. Alcuni dati sui flussi elettorali pubblicati recentemente dall’Istituto la Polis ci paiono eloquenti al riguardo: il 40% degli operai che è andato a votare ha votato Grillo e solo il 3,6%  ha scelto Rivoluzione Civile e nello stesso modo si sono comportati i disoccupati (42% e 2,1%) e gli studenti (29,1% 2,1%).
6)    L’anno zero della sinistra
Queste considerazioni ci permettono di arrivare a quello che almeno qui dentro possiamo considerare come uno dei dati più significativi e rilevanti usciti fuori dalle urne e che è anche l’ultimo punto che proveremo ad affrontare, ovvero l’estinzione della sinistra radicale. Alcuni dati prima di esprimere alcune considerazioni in merito: nel 2006 l’eterogenea sinistra parlamentare italiana raccoglieva complessivamente 4775446 voti, oggi la forza elettorale di questa area (compresa SeL) non va oltre 1994592 di voti, rappresentando così appena il 4,4% dell’intero corpo elettorale. Per la seconda legislatura consecutiva il parlamento non vedrà presente nessuna forza che, anche solo nominalmente, si richiama al comunismo. L’anomalia italiana, quella formula con cui in passato veniva descritta la coesistenza del più forte partito comunista occidentale e della più radicata sinistra extraparlamentare è stata definitivamente riassorbita. E ciò che rende ancora più paradossale questa normalizzazione è che tutto ciò è avvenuto mentre l’intero pianeta veniva squassato dalla crisi del modo di produzione capitalistico. Sovrapproduzione di merci e capitali, caduta del saggio di profitto, recrudescenza dei conflitti interimperialistici… mentre la storia ci da ragione i comunisti scompaiono (almeno per ora) dalla storia. Anche solo elencare tutti gli errori che ci hanno portato a questo punto richiederebbe ore e ore di discussione per cui ci limitiamo ad evidenziare due aspetti che secondo noi pesano più di altri:
a)    La quasi assoluta mancanza di radicamento nelle lotte sociali e, soprattutto, nella contraddizione capitale/lavoro
b)    L’altrettanto quasi assoluta mancanza di comprensione delle trasformazioni della forma Stato nell’attuale fase imperialista
Siamo convinti, in primo luogo, che l’assenza istituzionale della sinistra radicale altro non sia che il riflesso della sua assenza nella società, nelle lotte sociali e nei posti di lavoro. E cercare di sopperire a questa mancanza attraverso soluzioni politicistiche non può far altro che condurre verso nuovi disastri. La politica, anche quella borghese ha sue leggi e una di queste è che se non esisti non prendi voti. Sarebbe però semplicistico nonché riduttivo cercare di spiegare questa mancanza di radicamento esclusivamente attraverso gli errori soggettivi di questo o di quel gruppo dirigente o attraverso l’adozione di una linea sbagliata adottata in questo o quel congresso. Sia chiaro, non che non ci siano stati errori o che non abbiano pesato come macigni, ma se cosi fosse basterebbe addrizzare il tiro, unire i “comunisti più comunisti di tutti” in un super partito comunista e il gioco sarebbe bello e fatto. La storia di questi anni ci dimostra però che ipotesi di questo tipo sono tutte destinate al fallimento o, peggio ancora, alla parodia. Crediamo che le ragioni siano più strutturali.
La ristrutturazione con cui è stata messa fine al ciclo di lotte degli anni 70, la nuova collocazione dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro, la terziarizzazione delle economie occidentali e il conseguente spostamento della produzione manifatturiera nei paesi a bassi salari, così come il salto dai paradigmi dell’accumulazione fordista a quella flessibile; queste sono solo alcune delle cause che negli ultimi decenni hanno rivoluzionato le forme della produzione e trasformato l’organizzazione del lavoro. Processi ancora in corso le cui ricadute sulla classe potrebbero però essere riassunte schematicamente con una sola parola: frantumazione. Stiamo assistendo anche in occidente alla lenta ma inesorabile estinzione della figura del salariato garantito mentre quote sempre più consistenti di nuovi proletari sono ormai stabilmente tenute fuori dalla cornice dalle relazioni industriali “novecentesche” sui cui la sinistra tutta si era modulata e il ritardo accumulato tanto nella comprensione di queste trasformazioni quanto nella ricerca e nella sperimentazione di forme organizzative con cui intercettare ed organizzare questi nuovi proletari e le loro lotte è sicuramente una delle cause principali del nostro scarso insediamento sociale.
Al contempo pesa, a nostro avviso, la mancata comprensione del tramonto dello stato nazione come spazio deputato, almeno nel mondo occidentale, alla mediazione dei conflitti sociali e alla costruzione del consenso, e la sua sostituzione con una macchina burocratica e militare sempre più finalizzata quasi esclusivamente al controllo militare del “nemico interno”. E soprattutto pesa il fatto di non aver messo a fuoco ciò che questo implica, ovvero l’estinzione di ogni ipotesi di patto socialdemocratico anche all’interno della metropoli imperialista. Durante la campagna elettorale, ascoltando alcuni interventi o leggendo alcuni programmi ci siamo chiesti se fosse davvero ben chiara quale fosse la cornice entro cui qualsiasi parlamento uscito dalle urne sarebbe stato costretto a muoversi. Lo scorso luglio, nel pressoché completo disinteresse delle forze politiche italiane è stato costituzionalizzato il pareggio di bilancio adempiendo così ai dettami del Fiscal Compact. La federalizzazione delle politiche fiscali attuata attraverso il “Trattato di stabilità” stabilisce a priori il recinto delle politiche economiche di qualsiasi coalizione di governo svuotando così di significato e di potere i parlamenti nazionali. E’ un processo di cessione di sovranità di cui i comunisti non possono non tenere conto e ci chiediamo perciò quale senso abbia oggi affannarsi a cercare di entrare in una stanza che non ha più neanche i famosi “bottoni”..
7)    Come ripartire
A questo punto, per chiudere, servirebbe una soluzione, un che fare, ma siamo sinceri, sarebbe presuntuoso dire che noi ce l’abbiamo. Sappiamo però cosa ci servirebbe come il pane in questo momento: un organizzazione di classe, radicata nelle lotte e nei gangli della produzione e che sia all’altezza dei tempi e dello spazio politico che questi impongono, ovvero che abbia una respiro quantomeno europeo. Provare a costruire questa organizzazione è il compito che ci attende per i prossimi anni e la collocazione che si sceglie nel farlo non è indifferente all’esito del tentativo. Per questo crediamo che in questa fase la nostra posizione non possa essere che: fuori e contro i palazzi del potere.