Il capitalismo invecchia? Un mondo di lacrime e sangue


Il capitalismo invecchia? Un mondo di lacrime e sangue
Data di pubblicazione: 25.11.2009

Autore: Becattini, Giacomo

La terza puntata dell'inchiesta di Cosma Orsi sulla crisi del
capitalismo. Le risposte degli economisti capaci di pensare e guardare
al di là. Il manifesto, 25 novembre 2009

È difficile capire come il pianeta possa riuscire a trovare una via
d'uscita dalla attuale recessione. L'accentuarsi dei conflitti per il
controllo delle risorse prepara però un futuro poco roseo, rendendo
risibile l'immagine del mercato come paese delle meraviglie La crisi è
sistemica, perché investe le sue componenti finanziarie, sociali e
culturali . E va compreso il fatto che la borsa e le banche
costituiscono ormai l'ossatura dell'economia reale.

Il capitalismo è di fronte a una crisi sistemica, che coinvolge sia la
dimensione finanziaria che quella «reale». Per Giacomo Becattini è
questo il punto da cui partire per comprendere le conseguenze e gli
«effetti collaterali» dell'attuale situazione economica. Studioso dei
distretti industriali come modello di sviluppo economico parallelo a
quello basato sulla grande impresa, Becattini sostiene che la crisi
mette a nudo i limiti e le difficoltà della sinistra nella comprensione
dei processi economici. Allo stesso tempo, in questo terzo appuntamento
su come alcuni economisti italiani riflettono sulla situazione attuale,
invita a non fare facili profezie sulle vie d'uscita dalla crisi, perché
dipendenti da «logiche sistemiche» proprie del processo economico che
dalle politiche nazionali e internazionali.

Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta
possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una
crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto
con la crisi del '29?
La crisi è anzitutto sistemica, perché investe tutto l'organismo
sociale, non solo nelle sue componenti economico-finanziar ie, ma anche
in quelle sociali e culturali. Essa è finanziaria e reale al tempo
stesso, perché la finanza (la borsa, le banche, ecc..) nel capitalismo
avanzato, costituisce l'ossatura - strutturalmente infetta -
dell'economia reale. Ciclica, infine, per la natura stessa del mercato,
che chiudendo i conti sempre ex post deraglia sistematicamente dal
sentiero dello sviluppo equilibrato e deve esservi ricondotto, prima o
poi, dalla crisi.

Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità
della crisi, la predilezione degli economisti «mainstream» per la
formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia
dell'analisi economica - e della storia in generale?
Senza negare ogni utilità alla modellistica politicamente uncommitted
dilagante nel mondo degli studi economici, credo, in sostanza, che
questo orientamento contenga una rinuncia al compito principale
dell'economista, che, per me, è di analizzare il funzionamento dei
sistemi economici nel loro complesso, fra cui «l'economia di mercato»,
come strumenti non semplicemente di massimizzazione del benessere
economico, ma anche e soprattutto di attivazione e valorizzazione delle
potenzialità intellettuali di ogni popolo e di ogni strato sociale. Il
«grande spreco» del capitalismo attuale, non compensabile da alcun
aumento del Prodotto interno lordo, è la sua incapacità di valorizzare
la potenzialità intellettuale di qualche miliardo di esseri umani. Altro
che bassi salari o disoccupazione nel mondo «civilizzato», questo è il
vero e fondamentale fallimento del mercato.

Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e
frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e
deregolamentazioni della finanza) mini le basi della democrazia
economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della
politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del
mercato o dovrebbe spingersi più in là?
Bella domanda! A cui, però, non so rispondere altro che: siamo nei guai
e non ne usciremo facilmente. Né vedo in giro risposte convincenti. Come
economisti il contributo che possiamo e dovremmo dare è una critica
intelligente e onesta, ma sempre più approfondita, del capitalismo
oligopolistico- finanziario, che ci sta portando, sospetto,
all'apocalisse. Il punto mi pare essere che non c'è più una politica
distinta dall'economia. Ricordo la storiella di E.D. Domar in cui il
ministro del commercio statunitense presenta su di un vassoio tutti i
progetti dell'amministrazion e, invitando ogni rappresentante
dell'industria a togliere quello che gli da più fastidio. Bene, al
termine del giro, il vassoio è vuoto. Un esempio aggiornato della
storiella ce lo offrono, più o meno, le vicende del piano sanitario di
Obama.

Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che
sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di
stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa
rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto
al «Washington Consensus», quanto al capitalismo di Stato cinese? O c'è
il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa
(con il Sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
L'assetto mondiale di un domani anche relativamente prossimo - diciamo
10 anni - è una grande incognita. Focolai immensi, positivi e negativi,
come il risveglio economico di Cina ed India e i «subbugli»,
sudamericano e africano, ancora largamente non analizzati, sono
all'opera e nessuno può dire cosa accadrà dell'Europa, se resisterà allo
sconquasso. Certo è che, da un lato le linee divisorie tracciate dalla
storia europea, sono nette e profonde e, conseguentemente, le spinte
antiunitarie sono numerose e vigorose; dall'altro la filosofia
dell'Europa Unita è squallidamente economicistica. Dietro a questa
Europa, non riesco vedere, almeno finora, una idea-forza di vero
superamento degli egoismi nazionali e di costruzione di un nuovo
protagonista della scena mondiale futura. Vedo solo atteggiamenti
difensivi, non privi di utilità, certo, ma che non disegnano alcun
futuro propriamente europeo. Insomma: Io, speriamo che me la cavo.

L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale
(istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione) , bensì il
salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene
però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e pensioni): un
intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta
strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di
disoccupazione?
Proprio qui sta l'astuzia della manovra. Il '29 ha insegnato che il
principale amplificatore della crisi, una volta avviata, sta nel panico
dei depositanti e degli operatori in borsa. Quindi le prime misure sono
state garantire i depositanti e immettere liquidità. Naturalmente,
questa prassi, una volta metabolizzata dal sistema, riduce la paura del
fallimento e delle sue conseguenze patrimoniali, negli consigli di
amministrazione delle banche e delle multinazionali, e negli operatori
di borsa, generando, di conseguenza, un «capitalismo bastardo» in cui è
sufficiente portare, con qualsiasi mezzo, la propria azienda a
dimensione socialmente rilevante (Fiar e Alitalia docent), per essere
garantiti contro il fallimento. In sintesi, si è violata quella che D.H.
Robertson chiamava la «regola aurea del capitalismo»: chi decide paga
errori e imbrogli (se vengono svelati o se non riescono bene) - forse
con la prigione (e qui gli americani c'insegnano qualcosa), ma,
sicuramente, col suo patrimonio. E invece. È precisamente questo
l'andazzo che denunciava sommessamente Ernesto Cuccia - che il
capitalismo lo conosceva bene - in un suo famoso appunto del 1978: «non
si può fare a meno di chiedersi se, nel caso in cui non fosse stato
facilitato l'abbondante flusso di finanziamenti agevolati a taluni
imprenditori - privati e pubblici - nell'illusione che non la bontà
degli investimenti e la oculatezza della gestione avrebbero assicurato
il successo dell'iniziativa, bensì la protezione politica quale mezzo
per raggiungere il gigantismo delle imprese e con il gigantismo, non si
sa come o perché, la loro fortuna (ora lo si è capito!) c'è da
chiedersi, dicevamo, se in tal caso non avremmo avuto aziende molto più
modeste, ma più sane, con una crescita fondata almeno in parte
sull'autofinanziame nto e non soltanto sui debiti, capacità produttive
più aderenti alle effettive dimensioni dei mercati e, soprattutto,
minori interferenze politiche, lecite e illecite, nella vita economica
del paese».
Un capitalismo, insomma, quello che ci attende, da «Alice nel paese
delle meraviglie». Il problema vero, dalla cui soluzione si giudica sub
speciae aeternitatis il sistema, non è la piena occupazione purchessia,
ma «quale occupazione». Il sistema economico ottimale è, per me, quello
che apre al massimo numero di giovani in età lavorativa, un certo numero
di alternative d'impiego. Una situazione che si è presentata - in modo
rudimentale, beninteso! - in quei microcosmi di capitalismo
concorrenziale che sono i nostri distretti industriali. Ma la sinistra
italiana, imprigionata in schemi del passato - duole dirlo - non se n'è
accorta - pagando puntualmente il fio in termini elettorali. Che tristezza.
Questo implica immense responsabilità del sistema. Per garantire questa
pluralità di possibilità a tutti i giovani occorrono riforme che
incidono nella carne viva della società. La tendenziale uguaglianza dei
punti di partenza, all'età in cui uno entra nella vita sociale (16-18
anni), con tutto ciò che implica, è, per me, l'idea forza di una nuova
sinistra. E se questo diventasse l'impegno fondamentale di chi governa
il paese, ne discenderebbe una graduatoria degli interventi di natura
economica, sociale e formativa assai diversa da quelle in circolazione.

Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a
fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i
governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare
l'economia mondiale?
Precisiamo: se ci si riferisce al mondo attualmente sviluppato, un
prezzo certamente alto, che dimostra ancora «di che lacrime grondi e di
che sangue» lo sviluppo capitalistico, ma probabilmente non più alto di
quello di percorsi più classici di fuoriuscita dalla crisi. Se ci si
riferisce, invece, al mondo nel suo insieme, si possono fare molte
ipotesi, ma, per quanto ne so io, non si dispone di modelli logici che
consentano una risposta non campata in aria.
Quello che si può dire con certezza è che la crisi attuale non porterà
certamente al crollo del capitalismo, anche perché non disponiamo di
alternative radicali di sicuro funzionamento, e un sistema sociale non
può scomparire finché non è pronto il successore. Il cosiddetto
«socialismo alla cinese» e le altre pretese vie al socialismo sono,
infatti, per ora, una grande incognita.
Ma l'accentuazione dei contrasti per il controllo delle risorse naturali
e l'incarognimento dell'umanità, i quali procedono implacabili, non
promettono niente di buono. Mi dispiace a chiudere in negativo, ma
questa è, purtroppo, la convinzione che pervade il mio stato d'animo.