La fine della politica e l´apoteosi del denaro




a Robert Kurz "La fine della politica e l´apoteosi del denaro",
manifesto libri, Roma 1997

La società della merce ha consumato da tempo la sua sostanza tanto
economica quanto politica e procede su una sottile lastra di ghiaccio.
Una formazione sociale, una classe, almeno bisecolare volge ormai al
tramonto, un tramonto non pacifico. Le resistenze che suscita il
passaggio all'economia globalizzata e al "nuovo ordine mondiale" sono
sotto gli occhi di tutti. Le forze dell'"antagonismo sociale" non hanno
più bisogno di escogitare strumenti per mettere in difficoltà il potere
e per rompere il consenso che lo circonda. La questione non è
più /se/ ci saranno turbolenze che rompono il quieto vivere del "mondo
unificato", ma sapere /quale direzione/ prenderanno. Sono passati i
tempi in cui ogni protesta di massa, ogni opposizione all'ordine
costituito sembravano quasi automaticamente situarsi in un'ottica di
emancipazione sociale e dunque essere degni oggetti dell'entusiasmo
della "sinistra". Gran parte dei moti di protesta sociale, tanto di più
fuori d'Europa, non entrano più nei classici schemi di destra e sinistra
e finiscono al servizio di chi non ha certo per progetto un'umanità
liberata. In questa situazione, la critica sociale assume -
potenzialmente - un ruolo mai avuto prima. Le reazioni degli uomini al
folle corso dell'economia della merce verso l'abisso non sono affatto
programmate, ma dipendono largamente da ciò che essi sanno. E' assai
cinico deplorare la diffusione degli integralismi, del razzismo,
dell'estrema destra ecc. se al contempo si dichiara "utopica" o
"superata" qualsiasi critica globale di un sistema in cui,
evidentemente, per una parte crescente dei suoi abitanti non c'è più
posto. E per riprendere il filo di questa critica globale, non c'è
bisogno di guardare indietro, di nutrire nostalgia per le mitologie
leniniste, di rispolverare i valori della Resistenza, di sventolare
disperatamente bandiere rosse, di entusiasmarsi per Che Guevara. In
crisi è infatti proprio quella critica sociale che, sia pure come
controfaccia, faceva parte integrante del mondo oggi al tramonto.

Kurz è tra i pochi autori a fornire elementi per una critica globale
(anche se in un linguaggio che purtroppo non sempre ne facilita la
comprensione). La critica del lavoro astratto e del valore conduce
necessariamente alla critica del /modo di produzione/, dunque dei
meccanismi di base della società moderna. Essa è perciò il contrario di
quella critica diretta unicamente contro il denaro, la speculazione, lo
strapotere della finanza, cioè la critica della sola sfera della
circolazione. Questa critica riduttiva oggi è ampiamente diffusa, fino a
essere professata da Berlusconi, che da presidente del consiglio
annunciò una legge contro "la speculazione", e dal presidente francese
Chirac, che definì la speculazione "l'aids dell'economia". Questa accusa
contro gli aspetti più visibili della follia economica viene ripetuta
dal papa come dai centri sociali, dalla destra "sociale" come da
Rifondazione comunista. Non mette in discussione le forme basilari della
socializzazione capitalistica - il lavoro, la merce, il denaro -, bensì
ne propone una distribuzione diversa. In questa visione, il lavoro
dell'"onesto produttore" è al di sopra di ogni sospetto, mentre il
problema consiste solo nel suo ingiusto sfruttamento da parte di uno
strato parassitario. Addomesticato o rovesciato questo strato (a seconda
dei gusti con l'esortazione morale, la regolazione keynesiana o la
rottura rivoluzionaria), tutti i problemi sarebbero risolti. Questa
forma di anticapitalismo, ben lungi dall'essere una mezza verità,
svolge, anche a insaputa di chi la propone, la funzione di canalizzare
verso obiettivi secondari e forme innocue (dal punto di vista della
società capitalistica) il malcontento sociale. In un momento in cui
anche a livello di massa si comincia a percepire vagamente che il
lavoro, unica fonte di sostentamento nella società capitalistica, sta
diventando raro come l'aria respirabile nelle metropoli, è un compito
essenziale per i gestori del mondo indicare qualche presunta
responsabilità personale, sacrificare qualche speculatore e qualche
politico corrotto, per salvare l'insieme. Questi due saggi di Kurz
sottraggono il terreno a due tra le forme più diffuse di questa critica
sociale "di regime",/ Her Majesty's opposition/ : l'atteggiamento di
opporre il lavoro, la "base sana" della società, agli "eccessi" causati
dallo strapotere del denaro, dall'"avidità di profitto" ecc.; e
l'illusione che una sfera "politica", luogo del confronto democratico,
possa imporre regole al mercato, senza discuterlo in quanto tale.

"L'ascensione del denaro" (/Die Himmelfahrt des Geldes/), pubblicato sul
numero 16/17 di /Krisis/ (autunno 1995), esamina il problema del
credito, della speculazione e del capitale finanziario e annuncia che il
gigantesco castello di carta dei circuiti creditizi mondiali non potrà
più prolungare di molto la sua vita. Il crollo non sarà però lo scoppio
di una bolla di sapone, ma avrà delle ripercussioni gravissime
sull'economia "reale", dalle cui difficoltà deriva l'ipertrofia
finanziaria (e non viceversa). Il denaro non è una semplice escrescenza
rispetto al processo produttivo, come suggerisce tanta falsa critica del
capitalismo, bensì la forma che il lavoro astratto necessariamente
assume. Denaro e lavoro sono diversi stadi nello stesso processo di
creazione del valore di scambio. Ma il denaro, apparentemente, si
autoriproduce e può perciò crescere più velocemente della massa di
lavoro impiegato dal capitale, diventando allora ciò che Marx chiama
"capitale fittizio", e cioè capitale che non è frutto di un reale
plusvalore. Dall'inizio di questo secolo, il continuo aumento del
capitale fisso (macchinari, ecc.) necessario per impiegare la
forza-lavoro ha costretto il capitale a far ricorso al credito, cioè a
consumare in anticipo lavoro ancora da svolgere. Ma per molti anni sono
stati effettivamente realizzati guadagni in grado di saldare il debito.
Mentre inizialmente i crediti avevano solo il compito di mettere in moto
una produzione che poi avrebbe dovuto camminare da sola (keynesismo),
sempre più essi sono serviti per pagare i sempre più numerosi settori
non produttivi (infrastrutture, ecc.) di cui hanno bisogno i settori
produttivi.

Questi ultimi sono, secondo Kurz, da identificare con quella produzione
che rientra in un nuovo ciclo della produzione, a prescindere dal fatto
se questa si svolga in settori statali o privati, nell'industria o nei
servizi. Queste ultime osservazioni sono particolarmente importanti per
un dibattito in ambito marxista che non è mai arrivato a nessuna
conclusione sulla questione del "lavoro produttivo e improduttivo", e
che non ha neanche compreso l'importanza della questione.

Sempre più crediti sono inoltre richiesti per pagare le sovvenzioni che
permettono alle molte industrie nazionali rese non competitive dal
continuo innalzamento degli standard produttivi globali, di resistere
sul mercato mondiale. Già il fordismo non entrava più nei canoni del
capitalismo classico che si finanziava con i propri mezzi, poiché il
fordismo comportava un'enorme estensione del lavoro non produttivo e
aveva bisogno di grossi interventi statali, cioè creditizi. La forte
crescita in termini assoluti è però riuscita a compensare ancora per
diversi decenni la diminuzione relativa della produttività. Ci si è
abituati a supplire a questa perenne riduzione del lavoro veramente
produttivo con un'illimitata creazione di liquidità, resa possibile dal
fatto che, con l'abbandono della base aurea, il denaro è diventato del
tutto de-sostanzializzato e poggia adesso solo sulla fiducia nella
capacità degli Stati di pagare, fiducia che un giorno finirà col venire
meno. A partire dall'inizio degli anni Settanta, con il definitivo
affievolirsi dell'accumulazione reale, il credito non fa altro che
simulare un processo produttivo - nel senso di produzione di plusvalore
- quasi inesistente. Si è creata una montagna di crediti, di cui i
famosi debiti del Terzo Mondo sono solo una minuscola frazione. Già
adesso, la massa di denaro non derivante da un reale processo produttivo
di plusvalore si svaluta nell'inflazione (e deflazione) strutturale che,
sul livello mondiale, è elevatissima, anche se i paesi ricchi riescono
ancora a esportare il problema. Ma se in seguito a una crisi di fiducia
si cercasse di investire nell'economia reale le migliaia di miliardi di
dollari di "capitale fittizio", avverrebbe un immediato collasso mondiale.

Fin qui il saggio di Kurz. In questa situazione, comincia a diffondersi,
a sinistra come a destra, la convinzione che l'economia di per sé
funzioni e che le turbolenze derivino solo dalle mene di un gruppo
transnazionale di speculatori che vogliono guadagnare senza lavorare.
Proprio come nel periodo pre-nazista, i risentimenti degli "onesti
produttori" contro i "parassiti" in alto (alta finanza, tradizionalmente
considerata "ebraica"; casta dei politici) e in basso (immigrati;
persone che vivono di assistenza pubblica) possono produrre una
situazione esplosiva. Per chi non vuole ammettere l'esaurirsi della
dinamica capitalistica, "la finanza", o direttamente "l'ebreo",
rappresentano allora il lato "cattivo", considerato eliminabile, del
capitale.

Non a caso, un altro articolo di Kurz nello stesso numero
di /Krisis/ ("L'economia politica dell'antisemitismo") analizza,
dimostrandone la matrice antisemita, il diffondersi in Germania di
teorie neo-proudhoniane, apparentemente bizzarre, che propongono di
abolire l'interesse monetario e il denaro, esaltando al contempo il
"lavoro onesto" e la merce. Segni preoccupanti si possono comunque
trovare anche in Italia, quali le contestazioni, organizzate dalla
destra, al conferimento di un'onorificenza al finanziere G. Soros a
Bologna; e i primi /ballon d'essai/ per riproporre anche "da sinistra"
l'equazione "capitalismo uguale a ebrei" e il conseguente tentativo di
lanciare un "revisionismo" alla Faurisson.

"La fine della politica" (/Das Ende der Politik/), uscito sul numero 14
di /Krisis/ (1994), sostiene che la politica non è una categoria
ontologica, sovratemporale, così come non lo sono il lavoro e
l'economia. Queste forme sono nate dalla dissoluzione della precedente
forma dominante di feticismo sociale, quella religiosa, che abbracciava
l'intera sfera sociale. L'economia della merce è la forma di totalità
vigente nella società moderna, ma non è in grado da sola di instaurare
dei rapporti diretti tra i singoli "soggetti di mercato", che hanno
dunque bisogno di un'istanza regolativa. Nasce perciò una sfera
funzionale complementare, la politica. Questa, nonostante la sua natura
in fondo secondaria, derivata, acquista durante la fase ascendente della
società della merce una sua apparente autonomia. L'enfasi della
politica, il tentativo di governare la società tramite interventi
regolativi, viene portata avanti inizialmente dalle forze "progressiste"
contro la vecchia società dei ceti, più tardi anche dalla destra, e
culmina nei partiti di massa, nelle grandi ideologie e nei regimi
totalitari. La destra si è "impegnata" nel superamento dei vecchi
localismi, spronando la creazione degli Stati nazionali; la sinistra si
è battuta per la democrazia e il socialismo, superando le vecchie
divisioni dei ceti. In questo modo, la destra come la sinistra hanno
assicurato la vittoria completa della società della merce, con la sua
forma uguale per tutti, su tutti i particolarismi precedenti. Dopo la
seconda guerra mondiale comincia un movimento inverso, in cui la
politica perde man mano le sue possibilità di intervento: come risultato
della contrazione dell'accumulazione capitalistica analizzata in
"L'ascensione del denaro", si esauriscono i mezzi economici a
disposizione dello Stato, e la politica perde ogni possibilità di agire.
Infatti, ogni intervento deve essere finanziato, e lo Stato non può
creare moneta. Così si rivela il suo carattere non-autonomo, di cui si
era persa temporaneamente memoria. La politica si riduce a politica
economica e cancella tendenzialmente le differenze "politiche" tra
destra e sinistra; prevale comunque il liberismo, in quanto espressione
politica della sovranità dell'economico, sui "politicisti" di destra e
di sinistra (comunisti, fascisti ecc.). Ma la politica non può
scomparire completamente, poiché serve un'istanza che, oltre a occuparsi
delle infrastrutture, medi tra i diversi interessi di per sé incapaci di
tener conto della totalità sociale. Come l'economia della merce è
sottratta alla volontà dei soggetti - ed è questo precisamente il
feticismo -, così essa è irraggiungibile dalla forma politica che assume
questa volontà. Fallisce così uno dei temi preferiti della sinistra, la
richiesta di "interventi politici" per imbrigliare l'"economia",
concepita come mera sfera parziale della società e non come totalità. La
crisi dell'economia, cioè la continua riduzione del lavoro veramente
"produttivo" (di capitale), genera anche la crisi della politica,
soprattutto indirettamente, sottraendole i mezzi di intervento. La
politica resta impotente di fronte ai nuovi problemi ecologici - come
dimostra Kurz discutendo la proposta per una "tassa sul consumo
energetico" -, all'esaurirsi del lavoro, allo sconvolgimento del
rapporto tra i sessi, al declino dello Stato nazionale. Alla periferia
del sistema mondiale questo crollo è già avvenuto, e anche nei paesi più
sviluppati avanza a grandi passi. Il pericolo non è costituito da un
nuovo totalitarismo in grado di sottomettersi l'intera società, ma da
una nuova barbarie, da un'"economia del saccheggio" come ultimo stadio
del libero mercato.

E' senza dubbio uno degli aspetti forti di questo saggio dimostrare il
carattere totalmente illusorio della politica della sinistra - anche di
quella apparentemente più radicale, ma in fondo sempre keynesiana - che
crede sufficiente la buona volontà, cioè l'intervento politico, per
imporre al capitale dei limiti. Anche l'enfasi posta sulla
"democratizzazione" fa parte dell'illusione politicistica. Si torna
sempre a concepire l'antagonismo nella società feticistica della merce
come uno scontro tra volontà coscienti, e si continua a invertire il
rapporto tra politica ed economia. Ma se la società fosse capace di
dettare legge al suo mercato, invece di ricerverne legge, non si
tratterebbe più di una società feticistica. Sono invece proprio la
globalizzazione e il neoliberismo ad aver dimostrato che non si possono
più modificare le categorie-base del capitalismo: ogni misura politica a
spese del capitale in un determinato paese lo induce soltanto a muovere
altrove. L'unica alternativa realistica è allora la loro abolizione.

Due parole sulla traduzione: è da tenere conto che le numerose
costruzioni con "a/secondo/in forma-merce" (organizzata secondo la
forma-merce, riproduzione sociale in forma di merce, "pianificazione"
nella forma-merce, attività in forma di merce, sistema di regolazione in
forma di merce, totalità in forma di merce, separazione operata dalla
forma-merce [= warenförmige Trennung], soggetto determinato dalla
forma-merce [= warenförmiges Subjekt]) traducono sempre lo stesso
aggettivo /warenförmig/, alla lettera: "merciforme". La forma-merce, il
trionfo della pura quantità, è ben lungi dall'essere un fenomeno
puramente economico, bensì costituisce un "fenomeno sociale totale" (per
utilizzare la formula di Marcel Mauss); perciò si può ben parlare di una
società, di una politica, di un comportamento ecc. la cui struttura
riproduce quella della forma-merce.

Le costruzioni con "ascesa" (o talvolta "penetrazione", oppure
"diffusione") - fase di ascesa, storia della loro ascesa, stadio
dell'ascesa, modo di ascesa, forma dell'ascesa - traducono quasi sempre
parole composte con /Durchsetzung/ : si tratta del processo con cui
l'economia e il modo di socializzazione del capitalismo hanno
soppiantato progressivamente tutte le forme precapitalistiche, occupando
capillarmente l'intero territorio sociale.