Siamo fuori dal Tunnel ...e la finanza creativa



 

di Tarcisio Tarquini

18/05/2009
 giornalista  si occupa in particolare di politiche sociali locali. È presidente dell’Edit Coop e amministratore delegato dell’Ediesse.



Derivati e debiti degli enti locali. Questo è il tema. Ma potrebbe essere rivoltato anche così: le operazioni di finanza innovativa effettuate da centinaia di comuni e province italiane hanno raggiunto l’obiettivo, che si ripromettevano, di ristrutturare il debito rendendolo meno pesante o, invece, hanno ottenuto l’effetto contrario di incrementarlo devastando ancor di più i già compromessi bilanci degli enti locali? Periodicamente la questione arriva sulle prime pagine dei giornali, o in tv (memorabile una puntata di Report di qualche tempo fa, un’altra è annunciata prossimamente) suggerendo l’impressione che si sia davanti alle avvisaglie di una gigantesca ondata di dissesti finanziari destinata a sommergere le amministrazioni locali.

L’allarme torna in questi giorni, provocato da un’ampia indagine condotta dalla Corte dei Conti sull’utilizzo e la diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazioni nelle pubbliche amministrazioni . Lo studio è stato presentato nel corso di un’audizione tenuta il 18 febbraio alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato, e preoccupa più per le cose che non dice che per quelle che dice  esplicitamente. La ricerca ci informa, infatti, che 737 comuni e 40 province hanno effettuato operazioni di finanza derivata. Hanno “swapato”, come si dice, il debito. Spinti dalle sempre più risicate risorse a inventarsi strade nuove di finanziamento, ma sedotti anche da una cultura che esalta la spregiudicatezza finanziaria, questi enti hanno puntato su contratti basati sullo scambio di flussi finanziari in cui qualcuno ha comprato un loro debito e ne ha venduto un altro, proponendo una scommessa su quale dei due alla fine risulterà più vantaggioso.

I numeri sugli enti coinvolti si ricavano dalle specifiche note allegate ai bilanci di previsione 2008, un obbligo che però – lo precisa la stessa indagine della Corte dei Conti – non è stato osservato da tutti i comuni e le province realmente esposti con questi strumenti finanziari. Parziali risultano perciò anche le stime sugli effetti dell’uso dei derivati sul debito. Più della metà dei comuni ammette che le operazioni starebbero rivelandosi negative, un terzo azzarda invece un giudizio positivo, gli altri non forniscono indicazioni né in un senso né nell’altro. Un po’ meglio starebbero andando le cose nelle province, dove solo 8 delle 40 che hanno redatto la specifica nota al bilancio ipotizzano di poter subire una perdita, mentre addirittura 26 si dicono certe che alla fine registreranno un vantaggio.

Il totale delle perdite per i comuni non sarebbe, però, drammatico, poco meno di 70 milioni di euro, una frazione appena inferiore all’1% della complessiva situazione debitoria delle amministrazioni che prevedono di subire perdite, concentrate soprattutto negli enti con popolazione superiore ai 50 mila abitanti; in sostanza ogni abitante di questi enti vedrebbe aggravarsi di 11 euro il proprio pacchetto di debito pubblico. Fin qui i dati ufficiali. In fondo, sembrerebbe di poter concludere, facciamo bene ad allarmarci ma senza esagerare. I dubbi, però, si infittiscono quando ci si domanda se le stime esposte siano realistiche. È la stessa Corte dei Conti a invitare alla cautela, ricordando che esse sono state effettuate seguendo metodologie diverse, senza che sulle cifre risultanti, dettate dagli enti interessati, si siano potute effettuare verifiche e controlli. Potremmo trovarci di fronte, in sostanza, a una visione incompleta, alla punta di un iceberg che nessuno sa ancora quanto sia grande e che potrebbe annunciare un disastro di proporzioni straordinarie.

Mancano al censimento, probabilmente, proprio le operazioni più arrischiate. Quelle con cui si è scommesso sul futuro per ottenere un beneficio immediato, magari per finanziare la spesa corrente dietro la maschera di investimenti sul capitale. “Queste pratiche – commenta Alfredo Alessandrini, fino a qualche anno fa direttore generale della provincia di Parma, dove progettò e realizzò derivati “virtuosi”, di quelli cioè che non nascondono nella loro pancia elementi tossici e non scaricano i rischi esclusivamente su chi viene dopo – hanno preso largo piede negli enti pubblici, anche se di dati certi non ce ne sono, almeno che io sappia”.

Qualche numero, in realtà circola. Secondo il Tesoro nei cinque anni tra il 2002 e il 2007 erano circa 900 i derivati riconducibili a enti territoriali, e per la Banca d’Italia (citata dal Sole 24 Ore) a fine estate 2007 il loro valore di mercato a quel momento era negativo di più di un miliardo di euro. E, comunque, i numeri in questo caso non sono tutto. La questione centrale, infatti, resta quella che venne posta inizialmente, quando esplose fin nei più remoti borghi d’Italia la febbre dei derivati, se sia cioè sostenibile eticamente, prima ancora che finanziariamente, che un ente locale ricorra a strumenti di finanziamento che possono dar luogo a operazioni speculative e a cosiddetti piani di ristrutturazione del debito che, in cambio di un vantaggio immediato rinviano il rischio più avanti nel tempo, ipotecando così l’attività delle amministrazioni future: insomma, detto con un po’ di semplicistica rudezza, un modo come un altro di far pagare ai figli gli agi e i vizi dei padri.

È questo l’argomento più forte a cui fa appello Alessandrini, che ricorda come in queste iniziative ci si debba  attenere a due regole fondamentali. La prima, che si deve ricorrere a strumenti finanziari derivati solo per “coprire il rischio di variazione dei tassi dei mutui o dei prestiti obbligazionari” contratti dagli enti locali. La seconda, che si deve operare in modo professionale, facendosi aiutare da esperti e leggendo bene i tanti studi disponibili sulle previsioni dell’andamento dei tassi. A queste due condizioni “i rischi sono limitati”, e chi non le ha trascurate si ritrova oggi “o con piccoli vantaggi o con modeste perdite”. Il guaio arriva quando si passa a operazioni speculative, che in pratica scimmiottano nell’ambito del settore pubblico quei comportamenti di corto respiro (ma di enorme lucro) dei manager privati che hanno portato alla bancarotta (o quasi) mondiale: prendere tutti i vantaggi immediati spalmando i danni nel futuro.

Le modalità possono essere molteplici, ma tutte con la medesima caratteristica, acquisire danaro fresco e spendibile subito senza preoccuparsi troppo (come in certe cartolarizzazioni dei crediti, ma succede anche nella ristrutturazione del debito con l’emissione di prestiti obbligazionari) se i valori scambiati sono congrui. Eppure basterebbe sottoporsi a un solo vincolo: quello di evitare azioni di ristrutturazione del debito che creino un rischio di perdita del patrimonio a disposizione della comunità. “Su questo - incalza Alessandrini - la legislazione dovrebbe essere più rigorosa”. Negli ultimi anni, in effetti, lo riconosce la stessa Corte dei Conti, si sono messi dei paletti all’irresponsabile creatività degli enti, sottoposti alle lusinghe (soprattutto i più piccoli, presenti in quantità massiccia tra gli utilizzatori di derivati) di banche e finanziarie, alla ricerca di clienti e commesse. Si è vietato, per esempio, di ristrutturare debiti per un periodo più lungo di quello previsto dal contratto originario. Ma, soprattutto, si è imposto agli enti di allegare al bilancio di previsione una nota “che indichi – spiega la legge – quale sia la valutazione degli oneri e dei rischi finanziari correlati al contratto relativo a strumenti finanziari derivati”.

“Si tratta – commenta la Corte dei Conti – di un primo passo diretto a evidenziare quale sia la reale situazione finanziaria dell’ente e quali possibili situazioni negative possano verificarsi, anche per adeguare la gestione corrente, in relazione ai possibili impegni finanziari futuri”. Un primo passo, appunto, a cui far seguire altri passi. “Quello decisivo – suggerisce Alessandrini – consisterebbe nell’obbligo di prevedere nel bilancio una posta specifica, una sorta di fondo rischi, che individui risorse necessarie per difendere l’ente dalle insidie del mercato e da possibili conseguenti impoverimenti del patrimonio”.

Il vantaggio di ricorrere ai derivati in questo modo si ridurrebbe, perché si toglierebbero a chi amministra disponibilità finanziarie e ciò disincentiverebbe dall’imbarcarsi in situazioni pericolose. Attenti, però, è indispensabile che questi accantonamenti avvengano sul bilancio degli enti e non fuori. Già oggi, infatti, con l’intenzione di garantirsi da incidenti di percorso alcuni enti ricorrono a strategie protettive che possono produrre effetti peggiori del danno temuto. Un sistema, figlio di tale volontà, è per esempio il cosiddetto sinking fund, “un fondo – chiarisce la relazione dei giudici contabili – di ammontare pari a quello del prestito che deve essere costituito nel momento stesso in cui l’ente riceve il prestito e viene accantonato per un lungo periodo”. Una garanzia, in poche parole, gestita da un intermediario finanziario che presuppone la disponibilità da parte dell’ente di risorse da congelare fino alla restituzione del debito; circostanza questa però che mal si combina con finanza e regole degli enti territoriali. Un altro sistema è la versione temperata del precedente, l’operazione bullet. In questo caso l’ente accumula il capitale progressivamente in uno specifico fondo per ritrovarselo pronto al momento in cui deve rifondere il debito.

Ma cosa accadrà - si chiede la Corte dei Conti – se l’intermediario finanziario non provvede alla scadenza a “versare all’ente l’importo accumulato per poter procedere all’estinzione del prestito obbligazionario”? Dovrà essere l’ente stesso a far fronte all’impegno contratto con gli obbligazionisti con risorse proprie. Sempre che le abbia, “considerato l’elevato importo dei prestiti obbligazionari”. A cui spesso si dimentica di aggiungere il costo dell’intermediazione.