La Parola a ANTONIO
GAY
Antonio Gay nasce, nel 1940, a Firenze dove completa gli
studi ed inizia l’attività accademica. Libero docente in Economia Politica »
dal ’70 insegna questa disciplina a Pisa e poi, come ordinario, a Firenze dal 1980.
Si occupa di teoria dell’equilibrio economico generale, di preferenze e di dinamica.
Del 1977 è sua la soluzione del problema della discontinuità nella domanda quando vi sono dei
prezzi che vanno a zero. È un tema questo che ha ampio consenso nella
letteratura d’economia matematica. Nel ’92 esce nell’«Italian Economic Papers»
un suo saggio sull’incompletezza delle preferenze; tale incompletezza, del
tutto usuale nella vita pratica e matematicamente perfettamente trattabile,
genera problemi per il modo usuale di concepire le funzioni di domanda ed
introduce
elementi d’indeterminazione nel funzionamento dell’economia.
Del 2004 è pubblica un saggio sul comportamento
razionale di soggettività, costituite da molti
individui che si succedono nel tempo, che hanno un orizzonte di vita infinito
A cura di Cosma Orsi
La crisi ha origine in quell’intreccio che ha visto l’afflusso
di capitali dai paesi in via di sviluppo verso le economie forti, finanziando così
i consumi nei paesi sviluppati. In quest’ultimi, la crescita del settore
immobialiare è stata favorita per mettere sui giusti binari un’attività
economica in difficoltà. Quando l’intreccio è andato in frantumi la crisi è
dilagata. Ma il sistema economico tende comunque a ricercare una situazione di
«equilibrio » e così sarà. Questa tappa nella serie «Il capitalismo invecchia?»
restituisce l’immagine di un capitalismo che non ha certo perso la sua spinta
propulsiva.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una
risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una
crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi
del ‘29?
Così
riassumerei il meccanismo che ha generato la crisi. Per molto tempo i risparmi d’importanti
paesi in via di sviluppo, affluendo come capitali finanziari in paesi più
evoluti sotto questo profilo, hanno finanziato irragionevolmente i consumi
americani e d’altri paesi. Non è chiaro per quale ragione paesi quali la Cina
dovessero accumulare dollari anziché aumentare consumi e investimenti interni
acquistando all’estero beni reali. Il sistema bancario, americano e non solo,
non ha saputo per contro investire a sufficienza i nuovi capitali nei paesi in
via di sviluppo,dove le occasioni per veri profitti erano maggiori, ma li ha
indirizzati al finanziamento dei consumi in economie già mature e la cui
debolezza, nella competizione internazionale, era certificata da profondi e
duraturi deficit nella bilancia commerciale. Questo paradosso ha una
spiegazione anche troppo umana. Il sistema delle banche americane, e non solo,
agisce secondo un sistema d’incentivi che
favorisce effimeri profitti di breve periodo. Le perdite su investimenti che,
col tempo, si rivelano errati danneggiano gli azionisti delle banche che,
essendo tanti e dispersi, contano in concreto nulla nella nomina dei loro vertici.
Sono invece tutelati gli ingenti depositi in banche «troppo grandi per fallire»
che, nel momento della crisi, ottengono aiuti pubblici. Ai politici per contro
fa comodo che l’espansione edilizia, provvidenzialmente al riparo dalla concorrenza
internazionale, faccia sembrare l’economia
sana e florida; essi possono altresì menar vanto per i tanti non abbienti che
infine realizzano il sogno di diventare proprietari della propria casa. Non
importa che ciò avvenga grazie al credito facile, e che i nuovi proprietari contino
di pagare i loro debiti non con accresciuti redditi reali futuri, che non sono
alle viste, ma col proseguire ed ingigantirsi di una bolla immobiliare che, di
fatto, non è altro che una gigantesca «catena di Sant’Antonio». Questa è
possibile perché la rendita edilizia, a differenza del costo di costruzione, non
ha dei freni, dal lato dell’offerta, che rapidamente si rendano percepibili. L’aumentato
valore degli immobili, rivalutando le garanzie ipotecarie, ha consentito di
finanziare a debito consumi non necessari. La catena si è rotta quando si è
temuto che la bolla immobiliare potesse scoppiare; le aspettative, che già si
erano autorealizzate quando erano ottimiste, rovesciatesi si sono
materializzate nella crisi. Viene allora meno il finanziamento al consumo e,
chi potrebbe ancora ricorrervi, se n’astiene temendo per il suo reddito futuro.
Dalla crisi usciremo quando aumenteranno congruamente i consumi interni cinesi
e
d’altri paesi a più forte sviluppo e le economie mature
ricominceranno a pagare le importazioni con le loro esportazioni ridiventando
competitive attraverso i meccanismi del cambio e dei differenziali nei tassi d’inflazione.
Niente di molto nuovo o di epocale e sistemico in tutto ciò. Volendo che simili
disequilibri non si ripetano si deve - se ciò è politicamente possibile visti gli
intrecci tra finanza e politica – regolamentare il sistema bancario in modo che
non vi siano più banche troppo grandi per fallire e la struttura degli
incentivi deve diventare meno perversa. Ciò finirebbe col rendere più accorti
risparmiatori e stati.
Quanto
ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la
predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazionematematica, a
scapito della conoscenza della storia dell’analisi economica - e della storia
in generale ?
Come si fa a sostenere
che vi sia stata un’incapacità di prevedere la crisi da parte degli economisti?
Chi sono gli economisti: quelli che si occupano d’economia, quelli che ne
scrivono sui giornali, quelli che cercano di chiarire il tanto che nella teoria
è ancora oscuro?
Si tratta di mestieri diversi e non è giusto far carico a
tutti di ciò che si può imputare, non necessariamente a ragione, soltanto ad
una parte. Tante possono essere le motivazioni per ciò che si scrive, e non
tutte necessariamente confessate; dovremmo forse controllare la storia dei
portafogli azionari degli imputati d’imprevidenza per provare la validità dell’accusa? La
mediocrità non si riscatta con la matematica (da non confondere con l’econometria);
ma senza di lei e la sua disciplina come orientarsi in tematiche complesse
evitando le seduzioni della retorica?
Da
tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica
circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e
deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia
economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi,
dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi
più in la?
La domanda è cruciale, ma per porla correttamente dovremmo
sapere che cosa s’intende per mercato e per politica. Se mercato vuol dire
concorrenza, allora il fenomeno è del tutto residuale: per lo più le imprese
sopportano costi fissi e quindi, con una tecnologia non convessa, non vi è
alcuna tendenza all’uniformità del tasso di profitto. Al di fuori di questo
caso marginale vi sono degli interessi in conflitto e la convenienza delle
parti a raggiungere un accordo.
La politica è forse l’arte di realizzarli? In tal caso l’economia
è, al contempo, politica. Venendo più nello specifico, la domanda, alludendo
alla libera circolazione dei capitali, sembra suggerire che pochi titolari di
grandi patrimoni possano, minacciandone l’esportazione, impedire alla
maggioranza di prendere specifici provvedimenti di politica economica, da qui
un grave limite
ad una democrazia fondata sul principio d’uguaglianza. La
questione, oltre che d’attualità politica, è d’indubbio interesse speculativo:
quali limiti è legittimo imporre all’idea stessa di proprietà privata? È questo
un evidente caso di conflitto d’interessi. Se sono povero crederò giusto che
sulle grandi proprietà gravino imposte patrimoniali politica. Se mercato vuol
dire concorrenza, allora il fenomeno è del tutto residuale: per lo più le
imprese sopportano costi fissi e quindi, con una tecnologia non convessa, non
vi è alcuna tendenza all’uniformità del tasso di profitto. Al di fuori di
questo caso marginale vi sono degli interessi in conflitto e la convenienza delle
parti a raggiungere un accordo. La politica è forse l’arte di realizzarli? In
tal caso l’economia è, al contempo, politica. Venendo più nello specifico, la
domanda, alludendo alla libera circolazione dei capitali, sembra suggerire che
pochi titolari di grandi patrimoni possano, minacciandone l’esportazione, impedire
alla maggioranza di prendere specifici provvedimenti di politica economica, da
qui un grave limite ad una democrazia fondata sul principio d’uguaglianza. La
questione, oltre che d’attualità politica, è d’indubbio interesse speculativo:
quali limiti è legittimo imporre all’idea stessa di proprietà privata? È questo
un evidente caso di conflitto d’interessi. Se sono povero crederò giusto che
sulle grandi proprietà gravino imposte patrimoniali e, perché queste siano
esigibili, vorrò che, anche se è consentito l’acquisto d’attività finanziarie
straniere, i titoli che ne certificano la proprietà restino nel paese, così da
poterle tassare e, nel momento del bisogno, perfino confiscare. Se sono ricco
troverò ingiusto che i frutti del lavoro, della parsimonia e dell’accortezza
dei miei avi e di me stesso possano essere sottratti a me ed ai miei
discendenti a favore di famiglie che, risalendo addietro di un secolo o poco
più, erano, in partenza, povere quanto la mia; ed argomenterò che deve essere
la mia sensibilità sociale a decidere se e quanto dedicare a beneficio dei meno
fortunati. La disputa morale non trova una soluzione logica se non s’invoca un
qualche interesse generale che tuttavia il ricco ed il povero concepiranno in
modo contrastante. Com’economista mi limito ad osservare che i paesi in cui la
proprietà si sente minacciata non solo sono evitati da chi ha patrimoni ingenti
ma anche da chi, dotato di capacità lavorative eccellenti, quindi molto ben
retribuite al netto delle imposte sul reddito, voglia evitare che il suo futuro
patrimonio sia in pericolo. Nella competizione tra paesi questo fattore può non
essere ininfluente.
Molti
ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull’asse Washington
- Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di
un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per
politiche economiche alternative tanto al Washington Consensus, quanto al capitalismo
di stato cinese? O c’è il rischio che nel futuro assetto economico politico
mondiale l’Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
La domanda implicitamente attribuisce grande importanza alla
politica nel definire i destini di grandi aree economiche e culturali. La mia
personale sensibilità tende a privilegiare elementi più strutturali: in armonia
con la teoria economica classica stimo che ciò che decide del destino dei
popoli è la capacità di generare ricchezza, e questa è sostanzialmente figlia
della fatica e dell’intelligenza amministrate, e ciò non è scontato, con la
dovuta saggezza.
L’attuale
aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità,
pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società
finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro
(salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell’offerta, anziché
della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli
accettabili di disoccupazione?
Gli interventi a favore delle banche non dovrebbero
preoccupare eccessivamente: in larga misura sono dei prestiti mirati a
sbloccare una situazione di panico finanziario che dovrebbero, e ciò in parte è
già avvenuto, essere restituiti con il superamento della fase più acuta della
crisi. Invece quelli a favore dei redditi di lavoro - in un momento in cui i
precedenti squilibri, quelli reali, si dovranno correggere deindustrializzando quei
paesi, in primis Stati Uniti e Gran Bretagna, che maggiori vantaggi avevano
ricavato dalla precedente euforia finanziaria - non ci si può aspettare che
rapidamente si ridimensionino.
Quale
sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle
forme e delle dimensioni dell’ indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto
ricorso nel tentativo di non far naufragare l’economia mondiale?
Il tema ha reminiscenze Einaudiane- Lamalfiane-Scalfariane
da non prendere troppo sul serio. Alla fin fine conta il capitale reale del
paese, quello materiale e quello umano, nonché il saldo tra crediti e debiti
sull’estero.