Gli illusionisti della crescita infinita



di  CARLO VERCELLONE


INTERVISTA di Cosma Orsi
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29? Sono estremamente critico rispetto alla lettura dominante secondo cui si tratterebbe di una crisi d'origine finanziaria che solo in un secondo tempo si sarebbe estesa all'economia reale. In realtà si tratta di una crisi sistemica che testimonia per molti aspetti l'esaurimento della razionalità economica del capitale fondata sul profitto e l'espansione dei rapporti mercantili. In particolare, nei paesi a capitalismo avanzato, la crisi emerge, oltre che dalla logica speculativa endogena alla finanza, dall'interazione di tre cause strutturali i cui effetti si sono cumulati nel tempo. La prima è legata alle contraddizioni profonde tra la logica del capitalismo e le condizioni sociali e istituzionali alla base della crescita d'una economia fondata sulla conoscenza. Tali contraddizioni si manifestano a più livelli: nel contrasto tra la ricerca di redditività a breve termine della finanza e il lungo termine necessario al processo di produzione di conoscenza; nel modo in cui la trasformazione della conoscenza in una merce e in un capitale fittizio esige l'instaurazione di diritti di proprietà intellettuale che inducono una scarsità artificiale di questa risorsa. Ma si tratta anche e soprattutto dell'incapacità della finanza d'assicurare una valutazione stabile e attendibile del cosiddetto capitale intangibile che rappresenta ormai la parte più rivelante della capitalizzazione borsistica. Ora, malgrado la torsione introdotta da termini come capitale intellettuale, intangibile o umano, tale capitale non è altro che l'intelligenza collettiva. Esso sfugge dunque a qualsiasi misura oggettiva. Il suo valore non può essere che l'espressione soggettiva dell'aspettativa dei profitti effettuata dai mercati finanziari che si accaparrano in questo modo una rendita. Ciò contribuisce a spiegare perché il valore «borsistico» di questo capitale è essenzialmente fittizio e soggetto a fluttuazione di grande ampiezza. Esso si basa su una logica autoreferenziale propria alla finanza destinata inevitabilmente prima o poi a crollare. Insomma, come sottolineato da André Gorz già nel 2003, la successione di crisi finanziarie sempre più gravi che caratterizza il capitalismo contemporaneo, non è il semplice prodotto di una «cattiva» regolazione della finanza, ma esprime «la difficoltà intrinseca a far funzionare il capitale immateriale come un capitale e il capitalismo cognitivo come un capitalismo». La seconda dimensione corrisponde a una gigantesca crisi di sovrapproduzione. La sua origine non si trova unicamente nei limiti imposti alla domanda solvibile dalla polarizzazione della distribuzione del reddito e della ricchezza. Dipende anche dalla saturazione progressiva della sfera dei bisogni che il capitalismo può razionalmente soddisfare estendendo la logica della merce. La dinamica che ha condotto dallo scoppio della bolla Internet nel 2000 a quella dei subprime permette d'illustrare schematicamente questa tesi. Durante gli anni Novanta, il cosiddetto miracolo della net-economy aveva alimentato l'illusione di un nuovo settore motore capace di creare nuovi sbocchi rimpiazzando i vecchi mercati della produzione di massa fordista ormai saturi. La crisi del marzo 2000 mostra i limiti strutturali che il capitale incontra nel tentativo di sottomettere alla logica della mercificazione l'economia dell'immateriale, dove il principio della gratuità e dell'autorganizzazione in rete continuano a predominare malgrado i tentativi d'instaurare barriere all'accesso. Per evitare una depressione prolungata, la Fed statunitense riduce allora drasticamente i tassi d'interesse favorendo l'espansione smisurata del credito al consumo e l'indebitamento delle famiglie. Tale politica sembra risuscitare per un istante la speranza di una uscita dalla crisi fondata sul rilancio dei settori più tradizionali dell'economia. Un'illusione che evapora con lo scoppio della bolla speculativa dei subprime, la crisi ecologica, il fallimento di General Motors. A fronte di queste tendenze stagnazionistste, i soli settori in cui si registra una crescita costante della domanda sociale sono quelli della salute e dell'educazione assicurati tradizionalmente in Europa dallo stato sociale. Certo, l'estensione della logica mercantile in questi settori è teoricamente possibile. Tuttavia, salute, educazione e ricerca corrispondono al tempo stesso ai settori chiave di una economia fondata sulla conoscenza e a attività a cui la logica della mercificazione non si può applicare se non al prezzo d'ineguaglianze insostenibili e di una drastica diminuzione dell'efficacia sociale di queste produzioni. A differenza della crisi del 29, il superamento dell'attuale crisi di sovrapproduzione non può dunque poggiare sulla sola distribuzione ai lavoratori del potere d'acquisto necessario per comprare i beni di consumo che producono, ma implica in modo prioritario lo sviluppo di produzioni e consumi collettivi al di fuori della logica di mercato. La terza dimensione della crisi, quella ecologica, la più importante in un prossimo avvenire, conferma questa diagnosi. Ogni segno di ripresa del vecchio modello di crescita si scontrerà sistematicamente con l'esplosione dei prezzi delle materie prime e l'esaurimento delle risorse non rinnovabili impone una revisione radicale delle norme di produzione e di consumo al fine di garantire la preservazione dei beni comuni dell'umanità. Malgrado certe analogie con la crisi del 29, l'origine, il senso e la posta in gioco della crisi attuale sono dunque completamente originali. Esse precludono la possibilità di un'autentica uscita dalla crisi senza un processo di trasformazione sociale capace di ridefinire radicalmente sia le regole della distribuzione che le norme e le finalità sociali della produzione. Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale ? Un ruolo fondamentale, tanto sul piano ideologico che su quello dello sviluppo dell'innovazione finanziaria come nel caso emblematico dei premi nobel R. Merton e M. Scholes che tra l'altro sono passati dalla teoria alla pratica conducendo brillantemente al fallimento l'hedge fund Ltcm nel 1998. La crisi economica attuale é senza dubbio anche una crisi della teoria economica accademica. Sarebbe al riguardo utile un'analisi delle trasformazioni del «mestiere d'economista» per meglio comprendere le ragioni che hanno condotto un gran numero d'economisti, non solo mainstream, a perdere ogni senso critico e a divenire dei veri e propri «intellettuali organici» della finanza e del neoliberismo.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in la? Non bisogna dimenticare che il capitalismo ha strutturalmente bisogno dello Stato e, come già sottolineato da Antonio Gramsci e Karl Polanyi, l'instaurazione del sistema del laissez-faire nel XIX° secolo fu pianificata. Allo stesso modo, durante gli anni '80 e '90, la liberalizzazione finanziaria e la controrivoluzione monetarista sono stati il prodotto congiunto della pressione del capitale e della volontà deliberata degli stati. Le basi economiche sulle quali durante la crescita fordista si era fondato il potere di regolazione degli stati-nazione e delle politiche keynesiane è irrimediabilmente destrutturato. Con esse lo è anche lo spazio di democrazia economica in cui l'azione dei conflitti sociali aveva potuto incidere sul rapporto capitale-lavoro e imporre una formidabile espansione delle garanzie e dei servizi collettivi del welfare (ponendo nel tempo stesso le basi per lo sviluppo di un'economia fondata sulla conoscenza). Ormai, lo spazio di un esercizio della politica capace di spingersi più in la di un semplice ruolo di sudditanza ai mercati è sovranazionale. Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al Washington Consensus, quanto al capitalismo di stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale? Il vero baricentro dell'economia mondiale non è oggi il G20 ma il G2, mentre l'Europa resta impotente a guardare. In questo quadro, l'aumento del tasso di risparmio americano e la riduzione del suo deficit esterno con la riconversione dell'economia cinese verso il mercato interno sono senza dubbio alcune delle condizioni per riequilibrare l'economia mondiale. L'instaurazione in Cina di un modello di welfare che si potrebbe ispirare a quello europeo sarebbe un elemento chiave di questo processo: esso permetterebbe di far diminuire il tasso di risparmio delle famiglie cinesi, elevando nel tempo stesso la qualità della forza lavoro che costituisce il fattore decisivo della capacità competitiva in un'economia intensiva in conoscenza. Queste considerazioni sollevano più in generale la questione relativa al ruolo che il modello europeo di stato sociale potrebbe avere nell'elaborazione di una strategia d'uscita di crisi alternativa alle politiche attuali di rilancio, politiche che mantengono artificialmente in vita un modello di consumo e d'investimento socialmente e ecologicamente insostenibile. L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione? Esiste uno scarto terribile tra la capacità della finanza di prendere in ostaggio l'insieme delle istituzioni, ottenendo concessioni formidabili e incondizionate, e il rifiuto puro e semplice che è opposto ad ogni rivendicazione sociale. È invece inesatto affermare che non si assiste ad un aumento della spesa sociale che cresce in ragione dell'azione dei cosiddetti stabilizzatori automatici. Per esempio in Francia, gli ammortizzatori del Welfare hanno svolto un ruolo importante per frenare la caduta della domanda e attenuare gli effetti della crisi.. In modo più fondamentale, una politica che rafforzi le istituzioni del Welfare, nel loro duplice aspetto di fornitore di servizi collettivi e di sistema di redistribuzione del reddito, potrebbe costituire la via maestra per fare della crisi l'occasione della costruzione di un modello di sviluppo alternativo fondato su due assi principali. Il primo rinvia alla priorità data all'investimento nelle produzioni collettive dell'uomo per l'uomo (salute, educazione, ricerca pubblica) che assicurano al tempo stesso la soddisfazione dei bisogni essenziali, la crescita di un'economia fondata sulla conoscenza e un modello di sviluppo ecologicamente sostenibile. Il secondo asse rinvia alla moltiplicazione di forme d'accesso al reddito sganciate dal lavoro e incondizionate. Esse permetterebbero non solo di sostenere la domanda e d'attenuare gli effetti della precarizzazione del lavoro, ma favorirebbero la transizione verso un modello non produttivista, fondato sulla preminenza di forme di cooperazione non mercantili e capaci di liberare l'economia della conoscenza dalla logica parassitaria del capitalismo cognitivo e della finanza. Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale? Tutto dipende dal tipo di modello di società che genererà la biforcazione storica aperta dalla crisi sapendo che, come l'affermava con forza Gorz «l'uscita dal capitalismo avrà luogo in un modo o nell'altro, civilizzata o barbara».