MA L'ITALIA È GIÀ MULTIETNICA




di Maurizio Ambrosini
12.01.2010


Maurizio Ambrosini è docente di Sociologia dei processi migratori e Sociologia urbana presso l'università di Milano, Facoltà di Scienze Politiche. E' responsabile scientifico del Centro studi Medì-Migrazioni nel Mediterraneo, di Genova, dove dirige la rivista "Mondi migranti" (FrancoAngeli ed.) e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni, che giungerà nel 2009 alla quinta edizione. Fra le sue pubblicazioni: Un'altra globalizzazione (Il Mulino, 2008); Cittadini possibili (a cura di, con C.Marchetti, FrancoAngeli, 2008); Sociologia delle migrazioni (Il Mulino, 2005); Scelte solidali (Il Mulino, 2005), Seconde generazioni (a cura di, con S.Molina, Edizioni della Fondazione Agnelli, 2004), Immigrazione e metropoli (a cura di, con E.Abbatecola, FrancoAngeli 2004)

L'Italia non sta diventando multietnica perché qualche scriteriato ha aperto le frontiere. Il cambiamento avviene per dinamiche ed esigenze che hanno origine all'interno della nostra società, e in modo specifico nel mercato del lavoro. Discriminare o ritardare l'accesso alla cittadinanza rischia di portare acqua proprio al mulino di quel fondamentalismo che si vorrebbe contrastare. Mentre la legge che definisce reato la permanenza nel nostro territorio senza permesso di soggiorno è inapplicabile per mancanza di strutture e mezzi adeguati, prima ancora che anticostituzionale.
Il Corriere della Sera nelle ultime settimane è sceso in campo con alcuni dei suoi editorialisti di punta in una campagna che prende di mira gli immigrati mussulmani, le critiche alla legge che definisce reato l’immigrazione irregolare e le ipotesi legislative di maggiore apertura sulla cittadinanza agli stranieri. Nel mirino sono finiti anche gli intellettuali definiti liberal.
Mi permetto di intervenire nel dibattito con qualche considerazione. Ne ho fatto oggetto, più brevemente, di una lettera allo stesso Corriere , da cui riprendo alcuni spunti.

UNA LEGGE INAPPLICABILE
Si può convenire sul fatto che il presidio dei confini è una dimensione costitutiva della sovranità degli Stati moderni, per quanto democratici. Tutti dispongono di polizie di frontiera, richiedono passaporti, espellono all’occasione stranieri indesiderati. Nello stesso tempo, si obbligano a esaminare le istanze dei richiedenti asilo e ad accogliere quelli che ne hanno diritto, anche se arrivano, come in genere accade, violando le frontiere o usando documenti falsi. Come osserva Seyla Benhabib, “le democrazie liberali hanno sempre l’onere, allorché vigilano sui propri confini, di dimostrare che i modi in cui mettono in atto la propria vigilanza non violano diritti umani fondamentali”.
Altra cosa è una legge che definisce reato la permanenza sul territorio con un permesso turistico scaduto, da parte di persone che spesso lavorano. Non so dire se sia conforme alla Costituzione, ma la sua eventuale bocciatura non equivale all’apertura indiscriminata delle frontiere, come sostiene Angelo Panebianco. Il mio dubbio è semmai sull’efficacia: l’Italia dispone in tutto di 1.220 posti nei centri di identificazione ed espulsione, e riesce a espellere ben pochi immigrati. La legge è inapplicabile per mancanza di strutture e mezzi adeguati. Rischia di intasare la macchina della giustizia, di spingere gli immigrati irregolari verso condizioni ancora più marginali e contigue all’illegalità, di confermare alla fine il messaggio che in Italia le leggi sono severissime sulla carta, ma poco applicate nei fatti.
Qui si innesta un’altra questione. Gli immigrati irregolari non si insediano in Italia per colpa dei preti troppo accoglienti o degli intellettuali liberal, ma perché sono richiesti da molti datori di lavoro italiani, famiglie comprese, e non solo a Rosarno calabro. Infatti anche l’attuale governo, dopo tanti proclami di lotta senza quartiere all’immigrazione “clandestina”, è stato costretto a varare una sanatoria, la sesta in poco più di vent’anni, senza contare le sanatorie mascherate da decreti flussi. La fermezza di facciata è contraddetta dall’inefficacia dei controlli sui luoghi di lavoro. In Francia sono stati arrestati in un anno 900 datori di lavoro di immigrati non autorizzati, in Italia questo non avviene.

FONDAMENTALISMO E DISCRIMINAZIONE
Quanto ai mussulmani, il problema della penetrazione del fondamentalismo in queste comunità esiste. Ma vanno colti tre aspetti:
1) è un problema tipicamente europeo, negli Stati Uniti i circa 6 milioni di mussulmani non sono percepiti come una minoranza chiusa e ostile, non vivono in quartieri-ghetto, sono in gran parte istruiti e professionalmente qualificati.
2) Il fondamentalismo si nutre della discriminazione e dell’esclusione economica e sociale. I mussulmani in Europa non vivono in ghetti per loro scelta, ma perché non riescono a uscirne. E nei ghetti l’identità culturale e religiosa, l’unica risorsa accessibile a tutti, diventa facilmente un simbolo di opposizione a una società ostile ed escludente. In quei contesti la predicazione fondamentalista attecchisce più agevolmente.
3) Non è possibile, in un ordinamento democratico, né comprimere la libertà di culto, né impedire l’accesso alla cittadinanza per motivi religiosi, né indagare le opinioni di chi chiede di lavorare in Italia, di ricongiungersi con la famiglia o di diventarne cittadino. I criteri di accesso tendono oggi a insistere maggiormente sul fattore linguistico, o sulla conoscenza dei fondamenti storici e normativi dell’identità nazionale, ma in nessun caso possono vagliare gli atteggiamenti di chi, avendone i requisiti (anzianità di soggiorno, fedina penale pulita, eccetera) presenta istanza per acquisire la cittadinanza.
Il dubbio che sorge è che il problema dell’integrazione dei mussulmani venga sollevato per chiudere le porte dellacittadinanza a tutti gli immigrati, compresi filippini e peruviani. Va allora notato che una differenza troppo marcata tra la popolazione di fatto insediata sul territorio e quella ammessa al voto è una disfunzione pericolosa per una democrazia. Fa pensare all’antica Atene, dove la democrazia valeva per gli ateniesi (maschi), non per le donne, gli schiavi, ma neppure per i meteci, gli immigrati stranieri di allora. Discriminare o ritardare l’accesso alla cittadinanza (impedirlo in una democrazia non è possibile, la questione riguarda i tempi: cinque o sette o dieci anni) rischia di portare acqua al mulino di quel fondamentalismo che si vorrebbe contrastare. Semmai, credo si dovrebbe ragionare su due possibili punti:

1) se si vuole evitare il fenomeno dei “cittadini di carta”, ossia dell’accesso strumentale alla cittadinanza per ricavarne dei benefici, bisognerebbe attenuare le distanze tra i benefici accordati ai cittadini e agli immigrati lungo residenti. Per esempio, concedere l’accesso all’impiego pubblico, salvo alcune funzioni di particolare importanza per la sicurezza dello Stato;
2) se si vuole incentivare l’impegno nell’integrazione, occorrerebbe premiare, con un riduzione dei tempi di accesso, chi si dedica a comportamenti meritevoli, come il volontariato (per esempio, la protezione civile), il dono del sangue, la partecipazione con esito positivo a percorsi formativi in Italia.
Lascio da parte il problema dei giovani. Riesce difficile capire come si possa sperare di veder crescere lealtà e attaccamento al nostro paese a chi viene lasciato a lungo fuori della porta della cittadinanza, e costretto a lunghi e complicati procedimenti per accedervi, magari perché arrivato in Italia a due anni, o perché, nato qui, per un anno o due è stato accudito dai nonni al paese d’origine dei genitori.
La società italiana non sta diventando multietnica perché qualche scriteriato ha aperto le porte. Il cambiamento avviene per dinamiche ed esigenze che hanno origine all’interno della nostra società, e in modo specifico nel mercato del lavoro. In realtà noi produciamo ogni giorno la società multietnica, quali che siano le nostre opinioni al riguardo. Non è possibile utilizzare le braccia e rifiutare le persone, o negare loro di poter entrare un giorno a pieno diritto nella comunità dei cittadini di cui ormai, di fatto, fanno parte.